Da consumatori a produttori: i giovani lavoratori scelgono il brand

“Come se all’improvviso le imprese avessero scoperto la bontà del fare attivismo e del prendere posizioni politiche o ideologiche nell’affrontare le tematiche più controverse. Il merito è di una fascia generazionale di giovani, direi giovanissimi, che già qualche anno fa aveva iniziato a orientare il verso e le scelte dei genitori senza avere ancora nemmeno la carta di credito in tasca. Il mercato si è subito accorto che i giovani stavano offrendo un modello di consumo completamente diverso rispetto a prima”.

 

Paolo Iabichino fermo non ci sa stare davanti al mondo che cambia: è uno scrittore pubblicitario, è direttore creativo, ha fondato l’Osservatorio Civic Brands con Ipsos Italia e insegna alla Scuola Holden. Ma la parola marca, o brand, è la seconda pelle a cui si sono abituati gli italiani che pensano a lui.

 

Giovani che consumano e giovani che comprano prodotti. Cosa succede quando entrano in fabbrica, quando ci lavorano, e quei prodotti contribuiscono a crearli?

Lì accade la vera magia, quando un giovane da dentro un’impresa si prende cura del proprio lavoro perché sa che magari la filettatura di una vite o di un altro componente andrà a finire, per esempio, in un elettrodomestico che farà parte della vita di migliaia di famiglie. Oppure, ed è ancora più forte come contesto, quando sa che sempre quella sua filettatura perfetta uscirà sul mercato per una grande marca di cui lui si sente parte attiva e per la quale prova stima sociale. I giovani cercano sempre un loro posto nel mondo. 

 

Lavorare tra le fila di un’azienda impegnata socialmente fa la differenza.

Certo, qualunque sia il ruolo che rivesti. Se i ragazzi si sentono parte di una storia collettiva, cambia totalmente il loro rapporto col lavoro. Sempre restando sul tema della fabbrica e del giovane che lavora nella filiera produttiva di un elettrodomestico, sapere per lui che quella marca, ad esempio, è attiva contro l’obsolescenza programmata è una piccola grande rivoluzione. Si sente parte di un racconto di attenzione e anche se lui può sembrare solo una piccola maestranza alla fine non è mai così perché è pur sempre parte attiva di quel racconto.

 

Le aziende lo stanno capendo?

La buona notizia è proprio questa: non solo lo stanno capendo ma lo stanno capendo in fretta che i giovani sono un anello fondamentale non solo nella catena del consumo ma anche in quella del lavoro. Sempre meno i ragazzi cercano un lavoro solo per uno stipendio e già durante gli ultimi colloqui che facevo anni fa in agenzia sentivo quasi di essere io a venir interrogato da loro. 

 

I giovani non vogliono più essere solo scelti da un’azienda ma vogliono sceglierla loro.

Ci stanno insegnando proprio questo: la dignità di un lavoro, anche quello che può sembrare il più umile, che li faccia sentire parte di un tutto perché  risponde a valori sociali e collettivi. Tra un magazziniere di un’azienda eticamente sana e vicina al territorio e un magazziniere di un’azienda che sta dentro il circuito della Gig economy e che tradisce certi valori c’è una distanza che i giovani percepiscono molto più di noi. 

 

Il segreto della credibilità di una marca sta quindi anche nel coinvolgere le linee aziendali più invisibili?

Sta tutto lì. Inevitabilmente l’azienda deve lavorare dall’alto al basso trasferendo valori alle prime linee ma un senso di adesione più parte dal basso più ha speranza di fortificarsi e di fortifcare. Non dimentichiamo però che non stiamo parlando di concetti che è possibile insegnare o trasmettere con successo, l’ecumenismo non esiste nel lavoro e quel tipo di sensibilità o ce l’hai o non ce l’hai. Aderire a logiche aziendaliste, anche quando ben ispirate, non è per tutti ed è giusto che sia così.  

 

Le aziende dovrebbero sfruttare meglio il senso di adesione al territorio per rendersi attrattive coi giovani, più delle start up?

Abbiamo la memoria troppo corta, basterebbe tornare per un attimo a pensare come erano concepite le fabbriche negli anni Cinquanta: erano pensate, quasi obbligate, per essere in contatto col tessuto territoriale. Gli imprenditori non la mettevano su un’azienda se non erano capaci di collegarla anche ad un tessuto sociale – sostegno per ospedali, asili, progetti di solidarietà – e quando i lavoratori, giovani e meno giovani, indossavano quel camice sentivano perfettamente di essere parte di un tutto che avveniva ogni giorno sotto gli occhi della propria comunità.

La fabbrica, oggi più di ieri, non può diventare attrattiva per i giovani solo in quanto luogo: può diventare però attrattiva l’insegna che c’è sopra la fabbrica grazie al fascino etico e sociale che è capace di esercitare.