Daniele Manni, Vincitore 2020 Global Teacher Award: “Imparare a fallire a scuola ti servirà per tutta la vita”

Buongiorno, mi chiamo Daniele Manni. Oggi è il nostro primo giorno di scuola: cosa ci inventiamo quest’anno?

Ad ogni primo giorno di scuola lui si presenta così per far capire agli tudenti cosa vuol dire fare impresa delle idee. Una delle classi prime dell’anno scolastico in corso sta lavorando al Lecciopoly, l’edizione leccese del Monopoli con tutte le personalizzazioni locali: poi c’è chi si occuperà della grafica, chi degli sponsor, chi del business plan e via così. In Italia e nel mondo Manni ormai è conosciuto perché nel 2020 ha vinto il Global Teacher Award, il Nobel per i docenti. Il primo italiano ad aver raggiunto un simile riconoscimento, per quanto già anni prima fosse arrivato nella terna finalista degli Innovation and Entrapreneurship Teaching Excellence Awards. Manni insegna nel triennio dell’Istituto tecnico economico Galilei Costa di Lecce, sta lì da oltre 22 anni. “Io nasco come imprenditore ma, per necessità, nel 1986 accettai una mini supplenza di sei ore settimanali. Mi innamorai subito della scuola e per tredici anni insegnavo la mattina e lavoravo per la mia azienda di pomeriggio. Nel ’99 qualcosa cambiò in me, mi sentivo avvilito dal fatto che nelle mie classi di informatica ci fossero sempre i classici tre o quattro nerd appassionati di codice ma tutti gli altri restassero al palo. Mi davo la colpa per non riuscire a coinvolgerli e quindi decisi di abbandonare il mio lavoro e portarlo in un certo senso dentro le classi”.

Nel Duemila non eravamo stati minimamente coinvolti da digitale, dati e informatica. Che giovani erano?

Oggi si parla moltissimo di startup, che era una parola ancora inesistente quando iniziai a fare il mio lavoro coi ragazzi. Io ho sempre detto che “alcune idee diventano startup e, di queste, alcune diventano aziende che poi è il passaggio successivo nonché l’obiettivo principale.

Il suo nome, quando si parla o si legge di lei, è sempre associato all’espressione “Docente di auto-imprenditorialità”. Lei stesso la usa come titolo nel suo profilo Linkedin.

Ci tengo a chiarire che non è un modulo didattico ma semplicemente il mio modo di trasferire i concetti in cui credo per i giovani. Agli inizi spesso mi facevo lo scrupolo di sottrarre ore in classe all’insegnamento dell’informatica per dedicarle alla concretizzazione, appunto, delle idee. Finché non mi accorsi del miracolo di studenti che a distanza di anni, pur avendo poi preso le strade professionali più disparate dall’Arma de Carabinieri fino alla facoltà di Agraria, tornavano a ringraziarmi perché in classe avevano imparato a riconoscere, gestire e valorizzare quelle che oggi chiamiamo in modo trasversale soft skills.

Ha una gerarchia di soft skills per i ragazzi, competenze che reputa oggi più basilari di altre?

Spero non sembri banale ma certamente quella del conoscere la cultura dell’errore e mi spiego: imparare a gestire un errore a quell’età vuol dire imparare a sbagliare in un contesto protetto dalla scuola, dai docenti, dal gruppo. Oltre al fatto che sbagliare in classe vuol dire imparare a prendersi una responsabilità collettiva dell’errore e al tempo stesso ripartirla. Si arrabbiano quando auguro loro che alcune delle proposte falliscano ma è quello in cui credo davvero. Per esperienza ormai so riconoscere le idee che andranno a sbattere contro i muri ma non dico niente, li lascio fare, però lo scrivo su un biglietto che mostro loro quando il progetto in effetti non va a buon fine: in questo modo non reprimo gli entusiasmi, li supporto e insieme lavoriamo come se quella fosse l’idea dell’anno ma poi insieme ci prendiamo cura del fallimento.

Passiamo al concetto di premialità.

Faccio una distinzione molto netta perché io, fino al 2015, vivevo davvero molto più sereno perché non ero mai stato premiato mentre i miei ragazzi sì. Quando sono stato inserito tra i 50 docenti finalisti al mondo, invece, non nascondo che i primi mesi sono stati di forte imbarazzo. Finché ho capito che quel premio apriva le porte a moltissimi altri studenti e docenti per cambiare prospettiva, veicolava un messaggio sociale e formativo fortissimo.

Il premio è una dimensione familiare per i giovani di oggi o pensa che siano poche le occasioni in cui si riconosce loro un merito, un valore?

Faccio un banalissimo esempio per rispondere a questa domanda centrale: per i ragazzi anche l’articolo sul giornale locale è già una forma altissima di gratificazione. Quando viene il giornalista in classe che parla con loro e scatta loro qualche foto, allora capiscono che non hanno svolto solo un progetto o un compito con la classe ma che hanno fatto qualcosa che interessa la società, la stampa, i media. Ai ragazzi oggi mancano le occasioni vere per prendere confidenza con le proprie idee che, se restano chiuse dentro un’aula, si riducono a qualcosa di puramente scolastico.

Essere premiati diventa un atto di maturità.

Anche di più: con un’immagine potrei dire che è la pacca sulle spalle data dalla società. Quella del docente conta già molto per loro ma il salto vero si fa fuori.

Un premio alla fine è di tutti?

Soprattutto dei non premiati. Pensiamo a MaBasta, il Movimento anti bullismo animato da studenti adolescenti nato qui nel nostro Istituto con Mirko Cazzato a capo del gruppo. Lui, già prima di rientrare tra i 10 studenti più impattanti al mondo, era un punto di riferimento da emulare in positivo ancor prima che diventasse un caso nazionale e internazionale. Quando i giornali locali venivano a intervistarlo, tutti gli altri studenti speravano anche loro di essere riconosciuti un giorno per un’idea vincente e mi invitavano a lavorare con loro a progetti originali. Solo costruendo un’idea nel vero senso della parola, trasformandola cioè giorno dopo giorno, si insegna ai ragazzi che la fortuna non è lo scopo di una vita. Alle idee bisogna dedicare tempo, fatica, dedizione, spirito di gruppo; i sogni per fortuna non bastano.

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Stefania Zolotti, direttrice di SenzaFiltro, il giornale della cultura del lavoro, ha realizzato per RoadJob un ciclo di interviste che mettono nero su bianco il tema dei giovani e il loro rapporto con l’industria, la formazione, la crescita culturale e professionale tra generazioni, le geografie del lavoro.