Fabrizia Montefiori, ex Olivetti: “Dipendiamo tutti da tutto, i giovani ne approfittino per diventare unici”

Raggiungo Fabrizia Montefiori al telefono, lei è Amministratore delegato e Presidente di Tiesse. Una delle donne della prima era felice di Olivetti, la sua è una delle storie che bisogna raccontare non solo perché testimonia un passato industriale italiano ma perché guarda allo scenario futuro coi piedi ben piantati sull’oggi.

Tiesse produce apparecchiature di rete e marca una presenza molto significativa sul mercato delle telecomunicazioni.

Mi racconta che ha da poco letto un articolo sull’ultimo numero di Limes e, più ne parla, più capisco che sarà utile all’intervista: I microchip come polizza per la vita.

“Alla fine mi sono un po’ tranquillizzata dopo averlo letto. Fino a prima della pandemia l’idea di globalizzazione si portava dietro sempre un po’ d’ansia, almeno per me. L’articolo spiega come negli anni si siano polarizzate quelle competenze tecnologiche e al tempo stesso anche inchiavardate tra di loro per cui c’è un sistema fortemente interdipendente ma con un nucleo centrale fortissimo a Taiwan, che sarà la sua salvezza rispetto all’attacco della Cina. Taiwan produce più del 50% dei microchip mondiali e ha 24 milioni di abitanti, verrebbe da pensare che sia totalmente autonomo dal resto del mondo e invece la filiera dei microchip è talmente complessa e raffinata che anche il colosso Taiwan dipende da Olanda, Stati Uniti, Giappone Corea. 

 

Cosa l’ha consolata, quindi?

Il fatto che ognuno deve avere qualcosa che è il suo valore profondo. I giovani devono guardarsi bene dentro, formarsi e mettersi via una propria padronanza. Tanto saranno sempre dipendenti da qualcosa ma per lo meno saranno centrati, solidi, oltre che sempre utili a qualcuno.

 

I ragazzi come possono orientarsi in un contesto così parcellizzato?

La base è fare scelte di convinzione, seguire un’attitudine e un istinto professionale e non quello che magari suggerisce una famiglia di provenienza o una proiezione di mercato. Ma soprattutto abituarsi a rischiare e a sfidare la novità e l’ignoto, imbarcarsi in progetti di cui non vedono la fine ma che, proprio per questo, potranno farli crescere attraverso percorsi che nemmeno immaginano adesso. A me è successa la stessa cosa negli anni ’70, io mi sono mossa così e garantisco che era un mondo molto meno attivo del nostro dal punto di vista degli stimoli.

 

Tracciamo i punti essenziali della sua formazione e del suo primo lavoro.

La mia esperienza, più che vita, professionale nasce nella fase più stimolante della Olivetti che era quella in cui volevano realmente circondarsi di giovani. Avevano istituto uno stage post laurea che in realtà partiva prima della laurea, avevano paura che scappassimo via e sentivi che c’era davvero la voglia di averci con loro. Feci il mio quarto anno di università già in Olivetti con una borsa di studio, era l’ottobre del ’73 e il mio capo sarebbe stato Gastone Garziera, progettista oggi ottantenne a cui si deve il contributo nello sviluppo della Programma 101, considerato il primo personal computer al mondo. Garziera addirittura ci dava un premio produzione se riuscivamo a far rientrare i software in 8k, giusto per darvi una proporzione rispetto alla capacità di memoria dei computer di oggi e di quanto tempo e quanta storia sia passata in mezzo. Ad agosto del ’74 mi assunsero, una volta scaduta la borsa di studio: lavoravo nella Ricerca e Sviluppo, la mia qualifica era quella di informatico. 

 

Che fabbrica vedeva con gli occhi di una giovane laureata?

Anni incredibili in cui si creava e si costruiva il futuro, la fabbrica era viva e si sentiva in tutto il suo insieme perché, a differenza di oggi dove molto lavoro è diventato immateriale, lì la produzione era concreta e reale. Costruivamo i cavi che oggi non fanno più parte della produzione, le aziende informatiche non lo fanno più da tempo: a parte le aziende che fanno software, credo che la produzione con la p maiuscola sia fondamentale per un’azienda di questo settore. Negli anni purtroppo ci si è spogliati di questo aspetto, si è delegata fuori la produzione, sono prevalsi l’utilizzo o l’integrazione, si è persa la continuità e la copertura.

 

Può essere un elemento per valutare aziende in cui cercare lavoro?

La continuità di occupazione la garantisci meglio se sei anche un’azienda che produce, che genera indotto che a sua volta muove posti di lavoro. Infatti la Olivetti ha iniziato a morire quando ha iniziato a svendere tutto, erano gli anni ’90. Erano gli anni della system integration e della globalizzazione che poi alla fine ha fregato tutti. 

 

Altri fattori che fanno cadere le maschere delle aziende.

Osservarle bene: se si arricchiscono e tengono tutto per sé, allora sono lavori da cui stare possibilmente alla larga. Le aziende devono crescere di pari passo con chi ci sta dentro e di pari passo coi territori di cui vivono. Parlo di un arricchimento di cultura aziendale, sociale, relazionale e poi anche economico.

 

Dal 2020 la catena del lavoro si è rivelata per quello che è: lunghissima e interdipendente da ogni angolo del mondo.

Noi in Italia non abbiamo più la capacità di creare e produrre cose in modo alternativo, la pandemia ci ha fatto vedere chiaramente che dipendiamo tutti da tutti e da tutto. Non possiamo quasi più scegliere un fornitore: ci sono ormai troppi colli di bottiglia nella tecnologia che ci impediscono di scegliere liberamente in ogni fase di acquisto, vale sia per le aziende che per le persone. Il mercato industriale e del lavoro deve ricreare un nuovo senso di autonomia. 

 

L’altra faccia della medaglia, se può esserci un monito? 

Dovrebbero approfittarne i ragazzi: c’è urgenza ormai di crearsi e costruirsi una propria idea di futuro. Devono farlo i giovani, devono farlo i Paesi, deve farlo la politica e devono farlo le aziende. La dipendenza estrema a livello mondiale deve metterci davanti al bisogno di una nostra identità. Se non lavoriamo su quella, saremo sempre sotto scacco.

 

C’è qualcosa che si può dire o fare per sostenere chi vive accanto a un giovane alle prese con una scelta formativa o professionale?

Bisogna dire ai ragazzi che ce la faranno, qualunque cosa scelgano.