Il 30% dei giovani rifiuta offerte di lavoro che li porterebbe via di casa

Mario Gibertoni è un pezzo di storia italiana se guardiamo all’Italia dalla finestra delle aziende. Presidente e fondatore di Studio Base dalla sua nascita nel 1983, da quasi quarant’anni ha scelto di mettere a sistema e a disposizione del mercato il suo sguardo sul mondo del lavoro. Parlare con lui di giovani ha un senso profondo perché la sua vita professionale parte da lontano e ha molto a che fare con la crescita. Diploma tecnico, prima esperienza in Fiat OM, Accademia Navale di Livorno, Responsabile Manutenzione di reparto in Fiat Iveco, laurea in Economia a Parma e dirigente alla giovanissima età di trent’anni presso un’azienda siderurgica del Gruppo Fiat Teksid. Nel mezzo ha avuto l’intelligenza di saper viaggiare che non vuol dire banalmente andare all’estero: lo ha studiato e lo ha tradotto in pratica per l’Italia. Oggi è anche consulente, coach e formatore per le principali aziende e associazioni di categoria, muovendosi tra Europa, India, Israele, Brasile, Cile, Emirati Arabi e l’amato Giappone.

“Il mondo del lavoro, se visto dai giovani, dimostra che molti di loro sono fortemente legati all’insediamento in cui hanno sempre vissuto e davanti a un mondo sempre più complesso diventa una bolla in cui preferiscono restare. Per esperienza posso dire che addirittura un 30% di loro rinuncia a ottime offerte di lavoro se il prezzo è accettare una mobilità extra provinciale per non dire nazionale. Fenomeno che risulta un po’ più forte nel Sud Italia dove il legame relazionale e la famiglia hanno pesi diversi che al Nord oltre che costi decisamente inferiori e più sostenibili se si tratta di compensare l’assenza di un familiare fuori per lavoro. Non è un aspetto da sottovalutare ora che la trasformazione digitale sposta i rapporti individuali su binari sempre più impalpabili a discapito di un senso generale di community”.

Le radici passate pesano più degli sbocchi professionali futuri?

I giovani che sono cresciuti senza grandi esperienze all’estero, o senza aver nemmeno vissuto e accumulato corsi di lingue straniere, si sentono molto più protetti dove hanno la percezione o convinzione di essere già qualcuno e dove sostanzialmente conoscono tutti.

Subentra quindi una questione legata alla competitività da rifuggire o sbaglio?

È così: spesso i giovani hanno un certo timore a confrontarsi con situazioni e mercati molto più competitivi. Faccio subito un esempio vissuto di recente nel nostro studio: è il caso di un ingegnere che proveniva dal Trentino, molto brillante, che stava per essere assunto in un’azienda importante. Gli chiedevano però di andare un anno in Inghilterra a frequentare la casa madre per conoscere gli impianti da installare poi in Italia: arrivato all’ultimo colloquio ha rinunciato alla posizione motivando che viveva in un paesino di montagna dove la qualità della vita era molto alta e non si è affatto vergognato di aggiungere che suonava nella banda cittadina. Il senso di community e di relazione per lui era tutto ed ha rinunciato anche al doppio stipendio dato che gli avrebbero coperto tutte le spese per Londra.

Il 2020 si porterà strascichi anche in questo senso per i giovani? Intendo le resistenze alla trasformazione.

In parte è così e dico in parte perché oltre all’aspetto della prudenza c’è anche la questione del non voler sparire in mezzo alla massa che caratterizza le grandi capitali del lavoro. Molti giovani tendono a tutelare la propria identità individuale nel piccolo contesto piuttosto che provare a diventare protagonisti altrove.

Passiamo in rassegna le competenze che hanno e non hanno, che vogliono e non vogliono acquisire.

Questa è una fetta di giovani completamente diversa dalla precedente, cercano di agganciare volani di crescita e rincorrono senza timori le conferme delle proprie conoscenze e attitudini. Intendo quelli che oltre alle competenze aggiungono anche passione per il rischio e cercano ambienti stimolanti e competitivi.

Andiamo per gradi, allora. Manca un ruolo di cerniera in capo alle scuole tra ciò che i giovani sono e ciò che potrebbero valorizzare di sé stessi nel mondo del lavoro?

Nessuna scuola oggi aiuta i giovani a capire cosa vuol dire vivere in un contesto competitivo, lavorare in gruppo, darsi degli obiettivi e, in ultima analisi, quali sono i valori nuovi che vengono avanti dentro una società che si è fatta multietnica, multirazziale, multireligiosa e anche portatrice di nuove esigenze identitarie. Mi è capitato di recente di avere a che fare con un giovane molto valido della provincia di Brescia che ha scelto di accettare un’offerta di lavoro su Milano per quanto economicamente meno vantaggiosa: la sua omosessualità dichiarata non sarebbe stata un ostacolo alla crescita professionale in quel contesto rispetto a quello di origine. Stiamo parlando di fattori identitari ormai fortissimi che non possono più essere taciuti o sottovalutati.

Abbiamo lasciato da parte l’idea di imprenditorialità mossa dai giovani. A che punto siamo?

È una categoria affascinante quella dei giovani che scelgono di andare ad esplorare il mondo per esportare un modello italiano. Proprio ieri mi ha contattato un ragazzo tramite amici comuni e ha usato queste parole: “Voglio andare in nuova Zelanda, e in Australia, perché mi dicono che lì ci sono ancora buone opportunità di diventare imprenditori italiani”. Andrà lì formalmente per imparare l’inglese ma in realtà andrà a capire che spazio potersi ritagliare: una categoria ancora più diversa delle due precedenti. Giovani che vogliono essere qualcuno in contesti enormi, immensi, totalmente vergini anche in campo creativo e potenzialmente da inventare soprattutto per i mercati della moda e dell’alimentare. Per quanto l’Australia abbia da tempo contingentato l’ingresso degli stranieri, resta sempre aperta la porta delle aziende disposte ad assumere giovani con l’idea ben chiara di non voler tornare indietro. L’ Italia per loro è già alle spalle.

A cura di

Stefania Zolotti
stefania.z@fiordirisorse.eu
339.7097037