“Cosa fare” o “chi essere” da grandi? La differenza è tutta qui

Intervista a Mike Maric, campione del mondo di apnea e docente universitario

24 novembre 2020

È stato nuotatore agonista poi campione del mondo di apnea, senza tralasciare la sua passione per la medicina, che ha inseguito con cocciutaggine, conseguendo una laurea, una specializzazione, un master, un dottorato di ricerca e oggi una cattedra all’Università di Pavia, a dispetto di chi gli diceva, fin da bambino, che avrebbe dovuto accantonare le sue ambizioni. Ma Mike Maric, medaglia d’oro mondiale di apnea nel 2004, non è mai stato tipo da lasciarsi scoraggiare troppo facilmente: “i miei insegnanti delle scuole medie mi dicevano che un percorso tecnico-professionale sarebbe stato quello più adatto alle mie limitate capacità, ma io avevo un solo sogno, quello di fare il medico – ci racconta con voce squillante e gioviale. – Per fortuna ho sempre avuto dalla mia parte i miei genitori che hanno assecondato le mie passioni: così ho terminato il Liceo e mi sono iscritto alla Facoltà di Medicina, grazie allo sport sono riuscito ad acquisire consapevolezza e fiducia in me, e soprattutto nella capacità di poter spostare in avanti i miei limiti, soprattutto con l’apnea”. La disciplina che lo ha portato al titolo mondiale è diventata poi la base del suo lavoro: “ho unito le mie due passioni, lo sport e la scienza, inventandomi una figura che prima non c’era, quella di scienziato del respiro. Se mi avessero detto 10 anni fa che sarei diventato coach di tanti campioni non ci avrei creduto, non era il mio obiettivo, ma guardando a ritroso il mio percorso posso dire con certezza che sono riuscito ad arrivarci perché il mio faro è sempre stato quello della mia passione. La visione la puoi plasmare, modificare, adattare, ma se punti a una meta nessun mare in tempesta può fermarti”. Così il “Forrest Gump di Lodi” – così si definisce scherzosamente – oggi raccoglie i frutti delle passioni che ha coltivato più tenacemente.

“Ai più giovani cerco di dire questo, nelle occasioni in cui mi capita di incontrarli, tra i banchi dell’Università o negli incontri ai quali sono invitato: più che pensare a cosa volete fare da grandi, pensate a chi vorreste essere. Mi sembra che i ragazzi e le ragazze possano dividersi in tre tipologie umane e caratteriali: ci sono quelli che non hanno una visione, un’idea, che hanno già rinunciato ai sogni; gli arrivisti che vorrebbero tutto e subito, certo non aiutati da un presente che offre costantemente esempi di fama e denaro senza sforzi; infine quelli che hanno una passione che gli brucia dentro, li riconosci, a volte sono un po’ nerd come lo ero io alla loro età – scherza. –  Credo che coltivare i propri sogni, anche nella dimensione della pazienza, della rinuncia, del sacrificio – in questo senso lo sport aiuta a fornire la giusta disciplina e mentalità – sia la strada vincente”. Così come lo è quella dell’immaginazione: “chi avrebbe mai pensato dieci anni fa che quello dell’influencer avrebbe potuto diventare un mestiere riconosciuto e per di più molto remunerativo? Immagino le risatine di scherno nei confronti di chi aveva questa idea un po’ folle, ma visionaria. Ecco, io credo che chi vuole fare l’influencer oggi è già vecchio, bisogna guardare avanti, anticipare i tempi, leggere tra le righe del presente quello che in futuro potrà accadere. Per questo è importante viaggiare, sia fisicamente che mentalmente, tenere viva la curiosità sul mondo, confrontarsi con altri modi di vivere e altre opportunità. L’Italia è un paese che purtroppo offre poche opportunità ai giovani: pastoie burocratiche, lentezze, difficoltà scoraggiano la spinta imprenditoriale: ecco perché occorre anche prendere in considerazione l’ipotesi di andare altrove, magari soltanto per un periodo”.

La pandemia ha peggiorato la situazione per i giovani? “è indubbio che la situazione di crisi che investe il mondo abbia delle ripercussioni pesanti, ma credo anche che questa generazione sia da tempo in una situazione di precarietà, a mio avviso la quasi totalità dei giovani di oggi nasce con moltissimi strumenti ma è come se gli mancasse qualcosa dentro, e credo che sia la mia generazione a doversi interrogare sull’eredità che gli abbiamo lasciato e che in loro si rispecchia. Dico “quasi totalità” perché quella delle pari opportunità a volte è una favola, l’ho vissuto sulla mia pelle da figlio di genitori di origine slava”. Quali strumenti, allora, fornire ai ragazzi per far emergere le loro potenzialità e aiutarli a individuare, o costruire, i loro sogni nel cassetto? “Certo la scuola – da quella dell’obbligo all’Università resta lo strumento fondamentale, anche se ho l’impressione che l’iniziativa sia lasciata al singolo docente, al suo entusiasmo e alla sua capacità di coinvolgere, più che all’istituzione in sé. Ma penso anche che serva in confronto con altre figure, coach, motivatori, professionisti che hanno sviluppato competenze riconosciute, che possono fornire un supporto importante a chi sia alla ricerca della propria strada”.

L’importante è dunque allargare, con ogni mezzo, i propri orizzonti, e never give up, perché “è nei momenti di maggior difficoltà, come quello che stiamo attraversando, che tiri fuori il meglio di te: o crolli o risorgi, e devi coltivare l’ambizione di rialzarti quando tutti ti danno per vinto. Io da bambino ho pianto molto, ma non mi sono mai lasciato troppo condizionare dagli altri, volevo dimostrare che avevo tutte le capacità fisiche e intellettive per farcela. Quando ho cominciato con l’apnea ero il secondo di Pellizzari e nessuno credeva in me: ma con la testardaggine e la fiducia incrollabile nella mia strada sono diventato campione del mondo”.