Prepararsi al cambiamento dovrebbe diventare un approccio mentale costante: occorre investire sul capitale umano

Intervista Alfredo Biffi, docente Università degli Studi dell’Insubria e Niccolò Comerio, Ricercatore LIUC

14 dicembre 2020

Lo squilibrio tra domanda e offerta non è tanto un tema complesso, quanto accelerato: il tasso di innovazione delle competenze è tale che occorrerebbe ridefinirle su base mensile, e questo ovviamente è uno dei problemi principali. Accanto a ciò c’è il tema quasi storico del disallineamento tra le competenze sviluppate in ambito scolastico e quelle che vengono richieste dalle aziende. Che, c’è da dire, a loro volta mostrano qualche ambiguità comunicativa, forse frutto di idee non sempre chiare su cosa si sta cercando. Il risultato è poi la delusione delle aspettative da parte dei ragazzi che, attratti da una comunicazione ben confezionata, poi non trovano quello che si aspettavano di trovare. Infine, ma non ultimo per importanza, noto una certa impazienza sia lato aziende che lato ragazzi: da un lato non si comprende fino a fondo l’importanza di trovare una risorsa sulla quale investire nel tempo, dall’altro non ci si prende il tempo sufficiente per provare a capire se il lavoro può piacere o meno”. A parlare è Alfredo Biffi, Professore all’Università degli Studi dell’Insubria, che abbiamo coinvolto assieme a Niccolò Comerio, ricercatore della LIUC Università Cattaneo, in un’intervista “doppia” sul tema skill mismatch. “Alle difficoltà legate alla popolazione giovanile si aggiungono quelle della fascia dei 40/50enni, spesso non adeguatamente formati e aggiornati: certo è che si tratta di lavoratori più tutelati dal punto di vista contrattuale – dice Comerio. – Quello di una formazione non sempre adeguata è uno dei nodi più difficili da sciogliere: se si pensa al decreto Calenda sull’iper-ammortamento, ciò che è stato denunciato dagli imprenditori spesso è la contraddizione tra poter acquistare nuovi macchinari con sgravi ma poi non poter fornire la sufficiente formazione ai lavoratori per farli funzionare”.

“Mi chiedo se rispetto a questo, però, non si debbano muovere critiche all’imprenditore moderno, che dovrebbe tornare a investire e non pensare di poter avere sempre la pappa pronta – controbatte Biffi. – Sul capitale umano occorre investire, abbandonando quella cultura dell’usa e getta che mi pare stia diventando predominante. Le aziende per prime devono sapere che non sappiamo quali saranno i mestieri del futuro, e che prepararsi al cambiamento dovrebbe diventare un approccio mentale costante”. Un cambiamento di mentalità che dovrebbe iniziare anche a partire dalla scuola. “Ma i professori spesso non sanno cosa sia un’impresa, hanno iniziato il loro mestiere da giovani, non hanno mai avuto esperienza diretta del lavoro in azienda, del conflitto tra white e blue collar, per dirne una” dice Biffi. La situazione cambia un po’ nelle aule universitarie, dove ai docenti capita di fare consulenze esterne, come sottolinea Comerio. In generale però un maggiore contatto tra il mondo della scuola e quello delle imprese sarebbe fondamentale per dare ai ragazzi un importante strumento di orientamento. “Se i programmi ministeriali non fossero così vincolanti, sarebbe molto interessante definire strategie territoriali, costruendo sinergie tra i poli educativi e i cluster specifici di un’area, quello aerospaziale in Lombardia, quello farmaceutico o automobilistico in Emilia-Romagna, solo per fare due esempi – dice Biffi – potrebbe essere una via alla personalizzazione dei percorsi didattici, modellati sui potenziali talenti degli studenti”.

Quali sono in Italia i settori più fortemente colpiti dallo squilibrio tra domanda e offerta di specifiche competenze, dunque, e quali le ripercussioni? “Direi senz’altro il settore della trasformazione del prodotto fisico – dice Biffi – perché il lavoro manuale è percepito come squalificante. A ciò si aggiunga nel nostro territorio la vicinanza della Svizzera, che offre redditi ancora mediamente più alti sottraendo competenze distintive manuali invidiabili”. Altri ambiti “carenti” sono quelli dei servizi alla persona e della progettazione e sviluppo informatico. “Anche il settore bancario è in sofferenza per la mancanza di esperti in informatica, è un settore che non viene percepito come innovativo e quindi stimolante – aggiunge Comerio, che ha avuto modo di confrontarsi con grandi gruppi bancari italiani. – E ancora il settore farmaceutico, quello edilizio e tutto il filone connesso a bioedilizia e innovazione tecnologica, composto di aziende spesso piccole che, spero, presto comprenderanno la necessità di fare rete”. Che fare allora per allineare domanda e offerta di lavoro? “Certamente c’è il grande tema delle Company Academy, come RoadJob, a seconda del settore alcuni imprenditori le ritengono utili o meno” dice Comerio. “Io credo che in certi momenti storici occorra essere vincolanti, in altri invece liberare energie – continua Biffi. “Ecco, credo che questo sia il momento di lasciare la mano più libera sia agli imprenditori sia a chi vuole entrare nel mondo del lavoro. Nel nostro territorio ci sono moltissime persone che vorrebbero mettersi alla prova senza aspettare misure assistenzialistiche. Quanto alle Academy, penso che potrebbero essere il luogo dell’accoglienza delle istanze provenienti sia dal mondo delle imprese che da quello della scuola”. La situazione attuale si inserisce nel quadro – epocale – di un’emergenza sanitaria che ha colpito molto duramente il mondo del lavoro, modificando gli assetti preesistenti, in alcuni casi probabilmente in maniera definitiva. “C’è da dire che in alcuni casi il cambiamento, l’accelerazione, si erano già innescati: il Covid ha dato la spinta necessaria al cambiamento definitivo” dice Comerio. “Faccio l’esempio di una multinazionale farmaceutica, di cui non faccio il nome, che nella nuova sede aveva previsto già in fase pre-pandemica un 40% di postazioni in meno nell’ottica di implementazione dello smartworking”.

“È vero, alcuni processi hanno subito una velocizzazione, ad esempio nell’impiego di tecnologie informatiche – dice Biffi. – La cosa che mi ha colpito maggiormente però, con l’aumento della formazione online, è che se le basi si possono imparare “sul libro”, da remoto, la relazione diventa invece qualcosa di insostituibile, qualcosa che si dovrebbe portare nelle aule. Allo studente si dovrebbe lasciare la responsabilità dell’apprendimento a casa, l’aula potrebbe essere il momento dello scambio, dell’applicazione di quel sapere. Se in questa relazione venisse coinvolta anche l’azienda, l’imprenditore, il gioco sarebbe fatto. In questo modo a mio avviso dobbiamo progettare il futuro” conclude.