La generazione Yolo non crede al dio-lavoro

Vito Verrastro gira il mondo dei giovani, gira le scuole, gira l’Italia, gira soprattutto la sua Basilicata. Dal 2020 molte delle attività gli si sono ristrette online ma non si sono ridotte. Giornalista, formatore, autore nel 2018 del libro di successo Generazione boomerang. I «consapevoli ritorni» che possono cambiare l’Italia, fondatore di Lavoradio. Tra i gioielli che presta alla cultura del lavoro c’è anche il suo Jobbin Fest, nato nel 2013 e ora alla sesta edizione, con cui non nasconde le difficoltà dei giovani quando si parla di lavoro ma con cui si sforza di orientarli verso transizioni e possibilità, infondendo fiducia. Nel tempo della pandemia non si è mai tirato indietro e non poche scuole lo hanno coinvolto online durante le assemblee di istituto. 

Da alcuni mesi comincia a diffondersi anche in Italia l’interesse verso quattro lettere che stanno segnando il tempo: YOLO, you only live once. C’è il rischio che si stia importando in Italia una “moda” o uno stile di vita che non corrisponde alla nostra cultura e alla nostra società; al tempo stesso sta però suonando un campanello d’allarme generale e sta suonando per tutte le generazioni attive.

Le più sensibili alla cosiddetta YOLO economy sono i Millennials, dai 26 ai 41 anni, e la generazione Z, cioè gli under 25. La pandemia li ha messi davanti alla velocità delle paure, al digitale, allo smart working, al valore del tempo. Molto più e molto prima degli adulti.

 

“Il tema è ancora abbastanza carsico qui in Italia dove il mercato del lavoro è ancora rigido e povero. Non abbiamo ancora né dati né statistiche, abbiamo però le premesse verso una possibile tendenza. Nei contesti statunitensi sta invece diventando un fenomeno molto rilevante che sta già cambiando gli assetti e le traiettorie per gli americani. In Australia un recente sondaggio ha quotato fino al 50% la fetta di popolazione che sta valutando di lasciare o cambiare lavoro non sull’onda di una moda superficiale ma sulla base di riflessioni profonde scaturite e fatte detonare dal Covid. Insomma, sembra che a livello mondiale si sia fermata la giostra su cui tutti giravamo in modo inconsapevole anche per quello che riguardava il nostro rapporto col lavoro”.

 

Davanti al fenomeno YOLO, c’è chi prova a far riflettere sui rischi possibili per le nuove generazioni: in una sola parola, deresponsabilizzazione nei confronti del proprio futuro e di quello sociale a cui dovrebbero contribuire fin da ora.

Il rischio forse sta in una prima lettura superficiale che può essere fatta e io stesso ci sono caduto quando mio figlio, pur non parlandomi espressamente di YOLO, provava a spiegarmi il suo bisogno di vivere alla giornata. C’è molta più stratificazione dentro questi discorsi e richieste: di fatto è la necessità di questa generazione di non impostare la propria vita esclusivamente sul lavoro. Noi per loro siamo i workaholic, ricordiamocelo, mentre quello a cui loro stanno facendo appello è un equilibrio molto diverso tra vita e lavoro. Mio figlio mi dice chiaramente che non vorrebbe mai dedicare alle ore di computer tutte quelle che gli destino io.

 

Eppure sono talmente giovani da non aver ancora avuto l’opportunità di sperimentare lo squilibrio vita-lavoro. Come fanno a intuirne già i limiti?

Avvertono tutta la precarietà che c’è intorno a loro, oltre al fatto che vivono dentro un sistema e dentro un tempo storico che chiede loro di essere continuamente flessibili su tutto. E poi chi parla oggi dei più giovani manda costantemente messaggi tesi a scoraggiarli o a depotenziare il loro pensiero per il futuro. Non vengono messi minimamente nelle condizioni di immaginare un dopo rispetto a un presente instabile che non finisce mai.

 

Proviamo a trasformare la comunicazione con loro e nei loro confronti. Partiamo dalle parole.

Non possiamo più riferirci a loro parlando sempre e soltanto di lavoro che non c’è, è il tempo ormai di parlare di occupabilità. I parametri utilizzati purtroppo sono ancora il posto di lavoro, l’occupazione, il contratto, lo stipendio. Occupabilità, invece, non è solo una parola ma è una vera e propria frontiera, un concetto urgente su cui siamo tanto in ritardo: vorrebbe dire pensarsi e riprogettarsi, guardarsi intorno e capire quali sono i propri valori, coltivare le soft skill. Se non facciamo questo salto in avanti di natura mentale e culturale, rischiamo di continuare a pensare al lavoro nel modo in cui lo fanno ancora i sindacati, del tutto anacronistico. 

 

Chi si sta già occupando di approfondire il tema dell’occupabilità in Italia?

Lorenzo Cavalieri è sicuramente un nome da seguire e da leggere, basti pensare al suo libro Il lavoro non è un posto, scritto più per i genitori che per i figli. In pratica come allenare i figli, oltre che sé stessi, a un mondo che cambia così in fretta. Gli adulti sono spesso una parte del problema perché hanno ancora in mente i circuiti professionali e sociali del proprio tempo e trasferiscono solo quelli ai figli. Le dinamiche sono completamente cambiate.