Marco Onofri, Road Job Academy “È cambiato il nostro rapporto col tempo, e quindi anche col lavoro”

Per fortuna lavorare solo come HR manager non basta ai professionisti che cercano di spingersi più in là, oltre il ruolo, verso progetti più pieni. Credo sia il destino di Marco Onori, cresciuto nell’area Risorse Umane di Rodacciai – siamo a Lecco, Lombardia di confine – e cuore pensante, nonché tra gli ideatori, di RoadJob Academy di cui, dal 2020, è anche riferimento per il Comitato Scientifico. Lo conosco ormai da alcuni anni ed è anche grazie agli stimoli a cui mi ha condotta con l’Academy che ho maturato la convinzione di quanto lavoro ci sia da fare per ripulire l’immaginario collettivo dai luoghi comuni del lavorare in azienda. L’azienda, già; quella che una volta chiamavamo fabbrica con meno paura di sminuire qualcuno o qualcosa.

Una cultura del lavoro disorientata – come spesso dimostra di essere quella italiana – si porta inevitabilmente dietro il disorientamento delle generazioni più giovani. Ripeto spesso che, fin da piccoli, non dovrebbero chiederci cosa vorremmo fare da grandi ma chi vorremmo essere. È sul confondere l’essere col fare che porto Marco Onofri dentro questa intervista nella quale esordisce con la riflessione più urgente di questi tempi: mancano i lavoratori.

“Chiedersi se il modello di scuola e di orientamento abbia un ruolo nel nostro Paese è la prima domanda da farsi per riuscire a leggere quello che succede poi nel mondo del lavoro. In Germania il 50% degli studenti sceglie percorsi in ambito STEM, dovrà pur dirci qualcosa se da noi si arriva appena al 30%”.

L’attualità lo prende, altrimenti non sarebbe capace di unire i puntini che vanno dall’assenza massiccia di tecnici nella Pubblica Amministrazione per coprire le necessità legate al PNRR fino alla digitalizzazione del mercato del lavoro da qui ai prossimi decenni, passando per il tema dell’invecchiamento della popolazione attiva che ricadrà sempre più massicciamente sui numeri occupazionali dell’Italia.

Lo fermo e andiamo per gradi. Interviste così meritano soste di pensiero.

“Oggi viviamo un tempo in cui la parola lavoro assume molti più significati che in passato ma con la differenza sostanziale per cui non è sempre accompagnato dalla retribuzione. Non si tratta più soltanto di lavoro inteso come impiego del proprio tempo e della propria forza lavoro per la produzione di qualcosa in cambio di un salario, oggi il lavoro è anche produzione immateriale di informazioni e di dati che hanno una valorizzazione immediata sul mercato, ma a cui non è riconosciuto un salario. Quando scrolliamo un reel su instagram o quando contribuiamo all’aumento di valore di una certa app sui mercati finanziari o quando produciamo noi stessi contenuti sui social – che siano foto o che siano post – di fatto stiamo svolgendo un’attività lavorativa, in quanto contribuisce a produrre degli output scambiati sui mercati, ma che svolgiamo spontaneamente e gratuitamente. Si è perso del tutto il senso del valore e del contesto delle nostre azioni, questo è il rischio”.

La schiena dritta di Road Job Academy sta su grazie all’impegno dedicato con tenacia ai giovani, alle imprese e alla cultura da trasferire per farli parlare insieme nel modo giusto. Parlare di valore e di soldi in relazione al mondo del lavoro sarebbe la via maestra per avvicinare le nuove generazioni a cui manca – è evidente, è un pericolo culturale – una educazione finanziaria. Non che trenta o quarant’anni fa i giovani ne fossero esperti o avessero chissà quale competenza, ma nessuno può mettere in dubbio che il senso della fatica e del sacrificio li portasse a considerare con altro approccio il valore di un lavoro, e anche del tempo.

“È infatti sul tempo che sposterei il discorso. Queste generazioni contemporanee sono caratterizzate dal bisogno di immediatezza. La cultura del lavoro cui siamo socializzati ci ha insegnato, al contrario, che serve tempo per formarsi, per costruire un percorso che una volta si chiamava carriera e per raggiungere anche un livello retributivo che gratifichi il tempo speso a strutturarsi bene. Certo, non è sempre un percorso così lineare e scontato, ma questo è un altro discorso. Il ritorno economico immediato è la grande ansia di oggi ma serve sempre una progettualità seria legata a una tempistica fisiologica, non possiamo prescindere da questo.

Il vivere frenetico, costantemente connesso e sempre più spinto alla produzione e al consumo di dati – e di questo sono complici e responsabili i social network – finisce per confliggere con la natura del lavoro – perlomeno nelle forme e nelle modalità organizzative che persistono tutt’oggi – che richiede dei tempi di maturazione fisiologici”

Anche la nostra generazione di quarantenni ha la fretta come madre: ce lo diciamo con Marco mentre proseguiamo l’intervista. Più che della fretta, siamo figli dell’iper produzione e del consumo smisurato, in tutto. E figli anche del possibile.

“L’errore che viviamo è illuderci di poter avere tutto e di poter tenere tutto sotto controllo. Non è sempre stato così nella storia umana, tutt’altro. Non è che si potesse programmare qualsiasi cosa, in passato, e lo dico parlando dei contesti più disparati che fanno parte delle nostre vite private e professionali: pensiamo di controllare ogni variabile, dalla programmazione delle nascite fino alla variazione di un prodotto interno lordo, dalla modifica di un piano industriale fino al sistema sanitario. Finché l’imprevisto ci ricorda chi siamo e che abbiamo dei limiti, e la storia ci sta dimostrando negli ultimi anni che questa consapevolezza è sempre più spesso chiamata in gioco”.

Non è un caso che il suo parlare si soffermi tanto a lungo sul senso della imprevedibilità e del tempo che andrebbe rispettato con le sue incognite. Road Job Academy l’ha fatta nascere nel 2019, un istante prima che il mondo andasse sottosopra. Chissà come ha visto mutare anche le imprese.

“Le ho viste cambiare per necessità, ovvero “scoprendo” che fuori dai cancelli non c’era più la fila di persone col cappello in mano pronte farsi assumere. In altri termini l’offerta di lavoro è un bene scarso e lo sarà sempre più. Pertanto iniziano a chiedersi come promuovere sé stesse per orientare le scelte professionali e formative delle comunità in cui operano, e come trattenere le persone che lavorano per loro. Alla fine, anzi all’inizio, è una questione di cultura di impresa interna e sui territori e, se non si attivano le leve corrette, certi problemi continueranno a tornare a galla. La difficoltà di intercettare giovani per portarli in fabbrica c’era prima della pandemia e non poteva che aumentare. Difficile portarceli e difficile trattenerceli. Le barriere sono tutte culturali. Oltre al fatto che è centrale, per chi le osserva da fuori in vista di un possibile impiego, la coerenza tra ciò che racconti della vita in azienda tramite il marketing e la comunicazione e la reale esperienza che i dipendenti fanno dell’ambiente di lavoro. I social hanno sdoganato molte ipocrisie grazie ai commenti e alle storie raccontate dai lavoratori, e le maschere cadono una alla volta. In Italia non è ancora culturalmente diffuso come magari negli Stati Uniti, ma fare recensioni delle aziende su apposite piattaforme è un costume molto diffuso. Abituarci alla coerenza, che sia con noi stessi o che sia col senso del tempo, sarebbe il primo passo da muovere”.

____________________________________________________________________________________________________

Stefania Zolotti, direttrice di SenzaFiltro, il giornale della cultura del lavoro, realizza per RoadJob un ciclo di interviste che mettono nero su bianco il tema dei giovani e il loro rapporto con l’industria, la formazione, la crescita culturale e professionale tra generazioni, le geografie del lavoro.