Non possiamo farci definire solo da contratti e stipendi

Se avete un figlio che non sa ancora come orientarsi nel percorso di studi o di lavoro, fategli ascoltare un intervento di Angelo Candiani, Presidente di ASLAM e con ruoli direttivi anche in due Fondazioni ITS: una nel settore della manutenzione e costruzione di mezzi aeronautici, oltre che impegnata fortemente nella logistica e con sede a Malpensa (Fondazione ITS Lombardo Mobilità Sostenibile), e l’altra presieduta da Federlegno (Fondazione ITS Rosario Messina). ALSAM è una cooperativa sociale accreditata presso la Regione Lombardia: i settori di intervento sono la formazione, l’orientamento, i servizi al lavoro. La semplicità comunicativa con cui il loro sito internet guida la navigazione in tre passaggi descrive bene quanto ci sia bisogno di ricominciare a parlare facile e chiaro.

Dopo la terza media.

Dopo la maturità.

Per aziende e lavoratori.

Tradotto, nell’ordine: formazione professionale, formazione superiore, formazione continua e permanente.

Candiani, classe ’56, staresti ad ascoltarlo per ore tanta è l’adesione tra ciò che dice e come lo vive. Formazione spassionata per i giovani e una fede per le imprese, per il lavoro fatto bene e fatto a mano, per il capire a fondo chi siamo mentre lavoriamo.

All’età di vent’anni si era visto stroncare il percorso verso la laurea a causa della malattia del padre. Proprio il padre, qualche anno prima, gli aveva confessato le difficoltà e i timori nel poterlo sostenere economicamente negli studi: “Fai una scuola che ti permetta di imparare un mestiere”. E così si iscrisse ad una scuola professionale, erano gli anni ’70 e avevano un valore enorme. “Oggi le scuole professionali sono spesso considerate come il luogo di chi non ha potuto avere altre occasioni. In quegli anni, invece, le scuole davano una grande speranza ai giovani: bastarono una manciata di riforme nel corso di pochi anni per svilirle senza ragione a dispetto di un tessuto economico italiano che rispondeva perfettamente. Io volevo fare l’elettrotecnico e l’unico corso di studi che trovai prevedeva anche meccanica e accettai il compromesso, iniziai proprio da lì nonostante trovassi antipatico persino l’insegnante”.

All’inizio degli anni ’90 era già Direttore di un’associazione che teneva insieme 2000 imprese: dava loro servizi – da convenzioni bancarie e assicurative a occasioni commerciali all’estero – ma c’era sempre una domanda, ricorrente e insistente, che tutte le imprese rivolgevano ad Angelo Candiani. “Ma non ce l’hai un bravo ragazzo da presentarci?”.
“Negli anni ’90 si vedeva già lo scollamento evidentissimo tra quello che serviva alle imprese e come invece venissero orientati i giovani. La mia non vuole essere una critica alla spinta verso un certo livello di istruzione culturale più diffuso ma il risultato di quella scelta è che si è completamente svuotato il legame col mondo del lavoro. I primi effetti si palesarono presto: le aziende si rubavano i tecnici. Io ci vedevo una grandissima contraddizione nei messaggi che aleggiavano intorno ai temi della formazione e del lavoro: troppo forte era la rivendicazione del posto di lavoro e del contratto mentre a me sembrava che quelli più forti fossero quelli che avevano un mestiere, non quelli che avevano un contratto”.

La sua analisi sembra fare di scolpo una luce chiarissima su ciò che siamo diventati oggi, ridotti a parlare di lavori del futuro senza capire che il vero futuro è il presente, e riducendo tutto a questioni contrattuali. I mestieri sono spariti. “I contratti congelano le persone. Solo chi ha un mestiere ha un valore aggiunto, cresce lui e fa crescere il proprio posizionamento e quello delle aziende per cui lavora; è solo investendo sui mestieri che si investe sulla società intera e si rende possibile una evoluzione perché si sfrutta a dovere la formazione, il digitale, la connessione tra persone e imprese. Il nostro è un Paese spaccato tra i giovani che in pochi ascoltano e i dipendenti annoiati che contano quanto manca alla pensione. È morto l’allenamento. E un altro aspetto che ci caratterizza è il fare a pugni tra il mondo delle multinazionali e quello delle piccole e medie imprese: lo dico in termini di valutazione dell’età dei propri collaboratori perché una multinazionale considera già sfruttato al massimo e finito un quarantacinquenne o cinquantenne, gli diventa un peso, lo pagano per metterlo fuori.

Lei vive immerso tra i giovani ma ha l’occhio allenato anche con generazioni più mature.

Ricollocarli non è mai facile eppure nemmeno lì i paradossi mancano. Chi esce da una multinazionale spesso non ha problemi economici, gli si vede in faccia. Però la prima cosa che vorrebbe difendere è il livello retributivo con cui ha concluso il precedente lavoro. Questo ci dice che le persone prendono certe misure di sé stesse che rischiano di essere pericolose e fuorvianti. In fase di reinserimento bisognerebbe aprire di più l’attenzione e focalizzarsi sulle esperienze maturate, sulle competenze, sul proprio valore professionalie provando a sganciarlo dal solo fattore economico ma non perché non sia importate il livello retributivo bensì perché dobbiamo ricominciare a parlare di lavoro interpretando le persone.
Il secondo paradosso è che quei profili, appena usciti dalle multinazionali e che si automisurano solo dal contratto, non sanno rendersi appetibili agli occhi di una media o piccola impresa italiana che preferisce far crescere quella competenza in un profilo più giovane e meno oneroso. Deve esserci proprio una serie di coincidenze felici per incastrare quei profili dentro realtà medie o familiari.

Si riesce a far passare questo messaggio agli studenti?

Dico sempre loro che retribuzioni e contratti sono il segno di una società civile ed evoluta ma non li definiscono. “Fatevi definire da come percepite il vostro contributo tramite il lavoro che fate”.
Io conosco molte persone che non mi parlano mai del loro lavoro, ascoltano però la mia passione e la mia cura verso ciò che faccio. Quando entro nel discorso, sviano dicendo “Sì ma tu fai un lavoro particolare, sei diverso”. Di diverso c’è solo che o ti fai le domande giuste o non puoi trovare scuse. Aldilà degli studenti, gestisco ogni giorno 104 persone e se non faccio capire loro che devono sentirsi protagonisti della passione con cui lavorano finiranno per affidarsi solo ai contratti e agli stipendi”.

Per capire che Italia industriale siamo diventati dagli anni’70 in poi, Angelo Candiani mi riporta alla storia di Giuseppe. È fortemente convinto che per sviluppare il concetto di fabbrica sia fondamentale sviluppare sé stessi dentro la fabbrica e capire quale ruolo prendersi. “Ho sempre in mente la sua faccia mentre mi mostra il pezzo che aveva appena realizzato”. – “Vedi, questo l’ho fatto io”, e già immaginava la faccia del padre mentre gli avrebbe detto la stessa frase.

Candiani prova a liberare gli studenti e i giovani dalla sterilità dei parametri che hanno ingabbiato il lavoro, li fa sentire i primi attori di ogni pezzo che creano col proprio lavoro. E non lo fa per illuderli, ci crede davvero e fa in modo che se ne convincano anche loro. Basta aver filettato alla perfezione la vite di un motore da frigoriferi per sentirsi parte di un
tutto, dalla fabbrica agli acquisti delle famiglie. E anche questa è una storia vera che mi ha raccontato ricordando le parole di uno studente.