Orientamento e formazione? È già tardi se fatti all’università

Per lei le competenze sono i mattoni del presente prima ancora che del futuro. Soprattutto sono il tesoro di ogni impresa.

Professoressa associata alla LIUC, si occupa di organizzazione, gestione del personale e cambiamento organizzativo. A dire il vero c’è anche un altro fuoco che appassiona Eliana Minelli, in inglese si chiama Higher Education, vale a dire i modelli di gestione della formazione terziaria, ancora più semplificato c’è chi dice istruzione terziaria. Il termine straniero, difficilmente traducibile nella nostra cultura, deriva proprio dal fatto che si tratta di una disciplina ancora lontana dai nostri mondi. Il taglio della Higher Education è sociologico, puramente sociologico, e trasversale. In Italia non è una strada autonoma, si appoggia ad altre facoltà. 

“Io in questo genere di percorso ci vedo uno snodo centrale della crescita perché non guarda solo alla crescita economica che è solo una delle possibili ricadute. Si tradita di una formazione che mira a una crescita sociale, collettiva”. 

L’attività di Eliana Minelli studia a fondo il territorio tra Varese, Como, Lecco e il Canton Ticino, che è un modo per dire chiaramente cos’è l’Insubria, una terra di confine. “Qui c’è una lingua in comune e una cultura in comune ma soprattutto ci sono risorse in comune: risorse umane. risorse orografiche, risorse culturali perché abbiamo uno sviluppo comune. Parliamo di territori che, in un certo senso, sono l’uno complementare all’altro eppure, come tutto ciò che vive sul bordo, fatica a sentirsi definito, unito”.

Il Canton Ticino, 300 mila abitanti scarsi e un sistema efficiente e funzionale e una situazione finanziaria senz’altro più florida di quella italiana, di fatto è un’inezia come numero di persone rispetto all’Italia e ogni giorno, per muovere economia e vita sociale, hanno bisogno ogni giorno di 70mila frontalieri che vadano a lavorarci per far funzionare i servizi e la produzione. Due territori che condividono risorse e tecnologie.

“Tutta la Svizzera ha meno abitanti della Lombardia quindi non potrebbe mai drenare lavoratori dagli altri cantoni oltre al fatto che chi vive nei cantoni a nord vanta già stipendi più alti e non si posterebbe certo per venire a sud, peggiorando il proprio livello salariale.

Il mercato del lavoro a cui attingere è identico a quello lombardo per cui l’unica strada è mettersi intorno a un dialogo per quanto non sia così semplice e per quanto dietro ci sia una inevitabile simmetria informativa e una logica competitiva. Comunque il frontaliero non ruba lavoro, tutt’altro, lo porta. Il frontaliero è una competenza spesso altissima che il Canton Ticino, da solo, non avrebbe. Certo che esistono anche profili meno specializzati e altrettanto necessari per l’economia locale ma sono le competenze più raffinate quelle contese”.

SkillMatch-Insubria è il progetto che vede la LIUC soggetto capofila e la Minelli responsabile, è stato finanziato a partire dal 2018 e diversi sono i partner universitari: mira a riallineare domanda e offerta proprio in questo territorio. “È nato per trovare una quadratura del cerchio intorno alle necessità del mercato del lavoro e soprattuto della formazione dentro un territorio così ibrido. Solo con la formazione si può arricchire un territorio di frontiera che necessita di competenze ma anche di dialogo e riflessioni congiunte. Quando si condivide la stessa urgenza di competenze, si tratterà sempre di una competenza al rialzo e vincerà chi offre di più, un meccanismo che potrebbe non essere sempre sano o dare luogo a forme di spiazzamento, dumping o quant’altro di simile”.

Lei insegna all’Università e insegnare ai giovani vuol dire anche prospettare scenari, essere lucidi nel mostrare una ricaduta pratica. Come traduce questa complessità del vostro territorio?

La convergenza tra impresa e università è fondamentale e il sistema scolastico svizzero, col suo sistema duale, fa già sì che i ragazzi approccino presto la realtà esterna e il loro rapporto con un senso di futuro e di formazione applicata al lavoro. Imparano subito a vivere e conoscere su di sé un’osmosi che invece in Italia è completamente assente relegando il contatto tra formazione e lavoro alla fase dell’università. Ma all’università è già tardi oppure il problema si è già risolto tramite gli stage o tramite altri progetti che proiettano i ragazzi nel mondo del lavoro. Da noi in LIUC, per esempio, gli studenti attivano contemporaneamente più stage durante il corso accademico e certamente prima o poi faranno una tesi facilitata dall’esperienza concreta. 

L’età quindi è tutto se parliamo di formazione e di tempi dell’orientamento.

Il punto focale non è l’orientamento professionale durante gli anni dell’università e nemmeno durante gli anni di scuola superiore, oserei dire che già alle scuole medie sarebbe utile attivare percorsi. Non stiamo colpevolizzando nessuno, né le famiglie né il Ministero e né i docenti, ma di fatto non c’è da parte loro la conoscenza reale di come funzioni il mercato del lavoro. La formazione va sempre più orientata sia verso le esigenze di crescita della persona, che del cittadino e, ovviamente, del lavoratore. Sono gli strumenti che mancano alle famiglie, al Ministero e ai docenti, ed è la politica che non mette nessuno di loro in condizione di poterli avere e utilizzare. 

Provando a fare una sintesi, c’è una distorsione del mercato del lavoro?

Distorsione è la parola giusta, non si considera il lavoratore come protagonista del mercato del lavoro ed è un paradosso. Lo si ritiene un soggetto passivo che riceve politiche del lavoro ed è lo stesso pregiudizio che è ricaduto sui percettori del reddito di cittadinanza: i sussidi sono fondamentali a livello sociale, certo che servono, ma devono essere al tempo stesso un’occasione per riqualificare le persone, farle evolvere nella formazione e nella qualifica o semplicemente nelle competenze personali. Oggi ai giovani viene presentato un menù già pronto di offerte di lavoro e di dinamiche: loro, da soli, non hanno le capacità di decodificare cosa c’è aldilà di quello che appare a prima vista quando si affacciano al mondo professionale. 

Anche la demografia è un problema in ascesa in tutta Italia. Lo riscontra, al confine?

Certo, il debito demografico è innegabile, avremo lavoratori sempre più anziani e sempre più saremo costretti ad allungare la vita lavorativa. Non potrà valere per tutti i mestieri ma dovremo farci presto i conti. Faccio l’esempio del medico chirurgo: ovviamente a settant’anni e più non potrà andare in sala operatoria ma magari tutta la sua esperienza potrebbe riversarla e condividerla in corsia, nei reparti. Ecco, è tempo di ripensare il mondo del lavoro osservando come siamo oggi e come potremo diventare, anticipando le esigenze che avremo. Serve una flessibilizzazione del mercato così che le persone possano essere messe in condizione di scegliere una traiettoria di carriera non più rigida.

Fine dello stesso lavoro “per sempre”, possiamo sperare che cambi la cultura?

Il lavoro va ripensato in modo che le persone possano mettere in gioco con competenze e attitudini diverse in funzione anche della propria età. Si tratta di valutazioni che in Nord Europa hanno iniziato a fare trent’anni fa, si tratta di flexicurity. Serve una politica che facendo opposizioni inizia a portare a casa risultati che invertano una rotta, non possiamo pensare a un mercato del lavoro ingabbiato se vogliamo mitigare gli effetti del futuro e della velocità con la vita reale delle persone.

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Stefania Zolotti, direttrice di SenzaFiltro, il giornale della cultura del lavoro, realizza per RoadJob un ciclo di interviste che mettono nero su bianco il tema dei giovani e il loro rapporto con l’industria, la formazione, la crescita culturale e professionale tra generazioni, le geografie del lavoro.